Mariano Mangia
L a previdenza complementare non fa breccia tra i giovani. Solo il 18% dei lavoratori con meno di 35 anni, i dati sono quelli dell’ultima relazione annuale della Covip, è iscritto a una forma pensionistica complementare. Il tasso di partecipazione sale al 26,8% per i lavoratori di età compresa tra 35 e 44 anni e al 35% per quelli tra 45 e 64 anni; considerando tutte le forme di previdenza complementare, l’età media degli aderenti è di 44 anni, rispetto ai 41 degli occupati. L’allungamento dell’età pensionabile previsto dall’ultima riforma è, probabilmente, uno degli elementi che favoriscono atteggiamenti attendisti, il “poi ci penso”, se non la rassegnazione. Si tende a dimenticare che si andrà in pensione più tardi perché, fortunatamente, si vive più a lungo. Secondo le ipotesi elaborate dall’Istat nel suo “Previsioni della popolazione anni 2011-2065”, la speranza di vita alla nascita, nel 2010 pari a 79,1 anni per i maschi e a 84,3 anni per le donne, dovrebbe passare nel 2020 rispettivamente a 81,2 e 86,2 anni, per poi progressivamente aumentare fino ad arrivare nel 2065 a 86,6 anni per i maschi e 91,5 anni per le femmine. Questi sono i dati del cosiddetto scenario centrale, ma se si considerano anche gli intervalli di variazione contenuti negli scenari alternativi, il dato relativo al 2065 può essere compreso tra 84,4 e 88,6 anni per gli uomini e 88,8 e 93,8 anni per le donne. Si lavorerà più a lungo, quindi, ma il numero di anni da vivere come pensionati non si ridurrà, anzi tenderà a crescere. Proprio il tempo gioca il ruolo più determinante nel processo di accumulazione di un capitale, una considerazione che dovrebbe spingere ad aderire alla previdenza integrativa sin dai primi anni di occupazione. Per la legge dell’interesse composto, allungare la durata dell’investimento determina un aumento più che proporzionale del capitale accumulato a scadenza: gli interessi producono interessi. Raddoppiare il tasso di rendimento, invece, non si traduce, a parità delle altre condizioni, in un equivalente incremento del capitale. Qualche esempio, elaborato da Poste Vita, adoperando costi e caratteristiche del suo prodotto Postaprevidenza Valore, può illustrare meglio il “peso” del tempo in un investimento previdenziale. L’ipotesi di partenza è quella di un lavoratore dipendente di 37 anni, con una retribuzione lorda iniziale di 25.000 euro, che inizia a contribuire versando il 2% del suo stipendio (500 euro) e il trattamento di fine rapporto (1.278 euro), cui si aggiunge un contributo del datore di lavoro di 500 euro, per complessivi 2.728 euro annui. Le ipotesi di base sono un’inflazione annua del 2% e un incremento in termini reali della retribuzione, e dei relativi contributi, dell’1% annuo. All’età di 67 anni e 6 mesi otterrebbe una rendita annua netta di 8.459 euro. Se invece di iniziare i versamenti a 37 anni, ritarda di 10 anni, la rendita si riduce a 4.312 euro; se decide di aderire quando ormai ha 57 anni, dovrà accontentarsi di soli 1.656 euro. Più che l’importo della rendita in valore assoluto, va considerato il suo contributo a integrare la pensione pubblica. In termini di tasso di sostituzione, la rendita di chi ha aderito alla previdenza complementare a 37 anni rappresenterà quasi il 20% dell’ultima retribuzione, un valore più che adeguato per colmare il prevedibile gap tra pensione pubblica e ultima retribuzione. Già uno slittamento di 10 anni nei versamenti si traduce in una riduzione della copertura al 13,3%, con venti anni di contributi in meno, siamo solo al 6,8%. Nel caso di un dipendente di sesso femminile va tenuto presente che l’importo della rendita si riduce, in ragione della maggiore aspettativa di vita, la compagnia assicurativa dovrà erogare la rendita per un numero maggiore di anni. Il tasso di sostituzione cala così al 17,1% nell’ipotesi di 30 anni e 6 mesi di contribuzione e al 5,8% se gli anni sono dieci. L’importanza della lunghezza del periodo di contribuzione e dell’importo dei versamenti è ancora più evidente nel caso di un lavoratore autonomo, ad esempio un commerciante. Ipotizzando sempre un reddito annuo di 25.000 euro, ma contributi di ammontare inferiore, si parte da 1.600 euro, e un’età di pensionamento più elevata, 69 anni e 4 mesi, la rendita ottenibile aderendo alla forma complementare a 37 anni si riduce a 5.051 euro annui, pari al 13,3% dell’ultimo reddito, una percentuale da valutare con attenzione, visto che, per i lavoratori autonomi, la pensione pubblica garantisce, a parità di condizioni, un tasso di sostituzione inferiore. Dieci anni di ritardo nell’adesione comportano una riduzione della rendita a 2.800 euro, il 9,8% dell’ultimo reddito, mentre ricordarsi della previdenza complementare a 57 anni significa poter contare su una rendita annua di soli 1.223 euro, 100 euro al mese circa, ben poco utile al raggiungimento di un tenore di vita da pensionato pari o prossimo a quello dell’età lavorativa. Un’ultima annotazione riguarda l’aspetto fiscale della previdenza complementare. Nelle elaborazioni adoperate, i calcoli sono al netto dell’imposizione fiscale, ma non “monetizzano” il beneficio fiscale previsto per la fase di accumulo. I contributi versati alle forme di previdenza complementare, infatti, sono deducibili dal reddito entro il limite annuo di 5.164,57 euro, compreso il contributo del datore di lavoro. In soldoni vuol dire che il lavoratore autonomo dell’esempio precedente, che versa 1.600 euro nel prodotto previdenziale, con un’aliquota Irpef marginale del 27% su un reddito lordo di 25.000 euro avrà un risparmio di imposta di 432 euro. Questa facilitazione viene parzialmente recuperata dallo Stato con la tassazione della prestazione finale, quando a essere tassata è solo la componente del montante formata dai contributi dedotti nella fase di accumulazione. L’aliquota applicata, tuttavia, parte dal 15% e, soprattutto, si riduce dello 0,30% per ogni anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari eccedenti il quindicesimo, fino a un’aliquota minima del 9%, percentuali decisamente vantaggiose se rapportate alle aliquote Irpef utilizzate per la deduzione. Un motivo in più, insomma, per pensare alla previdenza complementare per tempo. La speranza di vita alla nascita, nel 2010 pari a 79,1 anni per i maschi e a 84,3 anni per le donne, dovrebbe passare nel 2020 a 81,2 e 86,2 anni